martedì 28 febbraio 2012

La bomba Omsa.

Da Il Caffè di Venerdì 24 Febbraio



Il mondo dell’informazione è strettamente legato alla pubblicità: quest’ultima ne rappresenta la linfa vitale, poiché lo rende indipendente da ingerenze politiche, o almeno dovrebbe. Non solo carta stampata, televisione e radio, anche il mondo del web si serve dell’adversiting. Siti web e blog sono pieni di annunci, di box che spuntano dinanzi alla nostra vista, spesso disturbando la lettura. Tra i social network Facebook e Youtube sono forse quelli che utilizzano di più gli annunci pubblicitari, anche in ragione dell’alto numero di persone che frequenta le loro pagine. Sono nate forme di marketing specializzato per il web e addirittura per i social network.
Ogni azienda che si rispetti ha una pagina Facebook per i propri clienti che cliccando sul tasto mi piace diventano automaticamente “fan”. Generalmente ci è data la possibilità di commentare o manifestare il nostro apprezzamento alle linee di prodotti presentate attraverso foto o claim di vario tipo. Provate a farvi un giro, e noterete come, dov’è possibile commentare, siano tanti anche i commenti negativi, sinonimo di una certa “democraticità” nel modo di interagire e comunicare tra l’azienda e i suoi fan/clienti o verso il potenziale target.
Tutto questo preambolo mi serve per raccontarvi un recente episodio che sto seguendo con attenzione. Avrete certamente sentito parlare della questione delle operaie Omsa dello stabilimento di Faenza licenziate che sono state licenziate per spostare la produzione in Serbia, dove i costi sono più bassi. Tantissime persone hanno avviato una campagna di boicottaggio che ha travolto il web in pochi giorni. L’indignazione è tanta, soprattutto in periodo di crisi, e tantissime donne e uomini hanno dichiarato che non compreranno più calze Omsa.
La pagina Facebook della Omsa è devastata quotidianamente e continuamente da commenti critici e negativi rispetto alla scelta aziendale di licenziare, così come la pagina della Golden Lady, proprietaria della linea Omsa. Sono ragazze e donne, affezionate alle varie marche (anche Sisi e Philipphe Matignon), deluse da una politica aziendale che penalizza l’Italia già tanto tartassata e decide di portare la produzione all’estero, ma anche tanti uomini che solidarizzano con la situazione delle operae e si aggregano al boicottaggio.  
Si legge ovunque “MAI PIU’ OMSA!”, Nicoletta si chiede: “Sicuramente guadagnerete di più risparmiando sullo stipendio delle lavoratrici serbe, ma a chi venderete le vostre calze? Ai serbi? A noi italiane no di sicuro”. Ivan mostra solidarietà alle dipendenti Omsa (più di 230) licenziate, e Davide ironizza: “Belle calze, in Serbia avranno un successone immagino!”. Qualcuno cerca anche di distogliere gli altri dal boicottaggio dei prodotti: “Basta con questo boicottaggio, rovinerete le persone attualmente assunte. Pensate anche alle 5000 persone che lavorano per il gruppo”.  C’è anche chi, come Giuseppina, avanza delle proposte: “ Non comprerò più Golden Lady, Omsa, SISI, Hue, Philippe Matignon, Saltallegro e Serenella. Come cittadina chiedo al governo di prevedere la confisca di beni alle società che de-localizzano, pari all'ammontare della cassa integrazione erogata alle maestranze italiane degli stabilimenti chiusi o ridimensionati”.
E’ nato anche un gruppo che si intitola: “A PIEDI NUDI! IO NON COMPRO OMSA E GOLDEN LADY FINCHE’ NON RIASSUMONO” contro la scelta del proprietario del colosso, il mantovano Nerino Grassi, di chiudere lo stabilimento in Emilia in cui lavorano, secondo le informazioni presenti nel gruppo 320 operaie e 30 operai.
Il recente servizio andato in onda nel programma giornalistico “Piazza Pulita” ha raccontato tutta la vicenda, portando ancora di più l’attenzione sull’avvenimento e sottolineando come tra l’altro, le donne serbe vengano sottopagate rispetto alle italiane, e abbiano molti meno diritti. L’ingiustizia è forte, sotto ogni fronte, ma il problema non riguarda solo quest’azienda. La delocalizzazione di aziende italiane sembra una prassi, l’ha fatto già la Fiat in passato. La recessione economica conseguente la crisi sta “deindustrializzando” il nostro Paese, e sono tanti i lavoratori mandati a casa, vecchi o giovani che siano.
Il dubbio che legittimamente viene, è se qualche imprenditore non si stia approfittando della crisi per scaricare i costi sullo Stato, attraverso la cassa integrazione dei suoi dipendenti, andando a fare profitti sicuri altrove. Se è così è davvero allucinante il disamore di questa gente per il proprio Paese, ed è ancora più grave se si pensa che le aziende che vivono queste situazioni sono tante, troppe.
La forza della pubblicità si ferma dinanzi alla dignità umana. Sotto un bellissimo servizio fotografico con fantastiche modelle, con addosso collant sexy e preziosa lingerie, qualcuno scrive: “A occhio e croce mi sembra che investiate un bel po' in marketing … e allora perché licenziate e delocalizzate al'estero? Perché i soldi non vi bastano mai e non ve ne frega niente se per arricchirvi ancora di più dovete passare sopra la vita di persone che per decenni hanno lavorato nelle vostre fabbriche!”.
Come risponde la Omsa? Proponendo l’ “Operazione trasparenza”, aprendo un forum, stesso su Facebook, definito “Spazio di conversazione sulla vicenda Omsa”. E’ allegata una lunga intervista al proprietario dell’azienda, in cui egli si difende e cerca di spiegare le ragioni che hanno portato a questa dolorosa ma invevitabile scelta. Per leggerlo potete collegarvi qui https://www.facebook.com/OMSAcalze e cliccare su Omsa - Forum. Intanto scende un velo di tristezza, comunque sia.

Luisa Ferrara


Nessun commento:

Posta un commento